L’industria italiana per un bel po’ si fermerà. A medio termine ci salveranno l’export e settori come farmaceutico, alimentare, macchinari per il packaging. Parla Marco Fortis

di Filippo Astone e Laura Magna ♦︎ Approfondita conversazione con l’economista industriale sul futuro della nostra manifattura, alle prese con calo della produzione, recessione in Germania, maggiori costi energetici, crisi dell’automotive e tante altre grane. L’industria dell’auto declina per Stellantis e per la follia ecologistoide UE che favorisce i cinesi. Molti settori non possono svilupparsi per la congiuntura internazionale. Il Green Deal non solo è inutile ma otterrà l’effetto opposto: si sposteranno produzioni in Paesi senza controlli ambientali. Il nucleare è indispensabile. E comunque alla fine ce la caveremo perché…

«Non mi aspetto dati positivi per la manifattura italiana nel 2024 e nemmeno nel 2025. La produzione industriale non può crescere perché siamo in un contesto di crisi per il commercio intraeuropeo e globale: la domanda dei nostri principali mercati di sbocco, la Germania e la Cina, sono in drammatico rallentamento. Ma nel complesso l’Italia è in grado di difendere la sua posizione di mercato, già nel medio periodo ne uscirà a testa alta». A dirlo a Industria Italiana è uno degli economisti che più studiano il nostro tessuto produttivo: Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison nonché docente di Economia Industriale e Commercio Estero all’Università Cattolica. Bisogna ripartire, secondo il professore, dagli elementi vitali della nostra produzione: settori che continuano a crescere come «i farmaci confezionati, l’alimentare, la cantieristica – continua Fortis – per lo più poco energivori e di nicchia e slegati dalla crisi tedesca. Che ci hanno consentito di scalare nella classifica dell’export, superando la Francia, la Corea e infine anche il Giappone, pur in presenza di un calo del dato assoluto». Insomma, è meno peggio di quel che sembra perché la crisi che stiamo attraversando è esogena, non intrinseca al nostro sistema industriale.

La lunga intervista che Fortis ha concesso a Industria Italiana prende spunto dagli ultimi dati sulla produzione industriale: a luglio, per il 18esimo mese consecutivo, Istat rileva un calo rispetto ai livelli dell’anno precedente. Un calo sostanzioso: -3,3% anno su anno e -0,9% rispetto a giugno 2024 e che ci attesta a un livello inferiore a quello del 2021. E certamente, c’è da contestualizzare questo dato nella più ampia crisi europea e globale, con la Germania che soffre anche più di noi per effetto del tracollo dell’auto e con una Cina anch’essa indebolita che consuma e cresce di gran lunga meno rispetto al passato. Il futuro non è roseo, come sostiene Fortis e come conferma l’indice Pmi che misura le aspettative dei responsabili degli acquisti e che è sotto quota 50 anche ad agosto. Ma non è necessariamente il disastro.







Certo la follia europea del Green Deal mette a rischio le ceramiche, l’acciaio, la plastica, ovvero «le eccellenze industriali che ci hanno permesso finora di avere un surplus commerciale con il resto del mondo: più che per l’Italia che in qualche modo si risolleverà, quello che dovrebbe preoccupare e la solidità dell’Europa che rischia di schiantarsi se non riesce a mantenere in vita quelle produzioni». Un monito che è contenuto anche le recente rapporto che l’ex governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha presentato alla Commissione europea e rispetto a cui però l’Ue è apparsa sorda.

D: La produzione industriale italiana è in crisi. Cosa sta succedendo e come si evolverà la situazione?

Marco Fortis, economista dell’Università Cattolica e direttore della Fondazione Edison.

R: La produzione industriale italiana non può crescere, perché immersa in un contesto di crisi per Germania, Austria e Francia, ma anche dell’Est Europa, con tutto il commercio intracomunitario fermo. Anche l’export extra UE è in frenata. La Cina che per molti produttori occidentali sembrava uno sbocco infinito si è indebolita: per la crisi di un modello che ha raggiunto una specie di saturazione sul fronte del potere d’acquisto delle famiglie, appesantito dalla crisi immobiliare. C’è stato anche un cambiamento nel modello sociale: che ha portato a una minore ostentazione di prodotti occidentali, anche di lusso, e a una maggiore propensione all’acquisto dei prodotti cinesi. I tedeschi non riescono più a vendere le auto di grande cilindrata e si erano illusi che il mercato cinese fosse eterno: non è così. Anzi, la crisi attuale della Germania dipende anche dal fatto che si sono bloccati due propulsori chiave: ovvero, il mercato auto cinese, che sembrava infinito, si è fermato, così come il gas a buon mercato di Putin. L’Italia risente di tutto questo contesto.

D: Nonostante questa crisi e nonostante non si vedano segnali di miglioramento nel corso di almeno un anno, lei non ritiene che siamo spacciati?

R: No, possiamo trovare una via di uscita alla crisi e invertire la rotta. Partendo da quanto c’è di positivo. Per esempio, pur in presenza di un calo della produzione industriale in Europa e fuori, nei primi sette mesi dell’anno, pur diminuendo il dato generale di export, abbiamo superato il Giappone a livello globale. Abbiamo superato nel giro di dieci anni la Francia, poi la Corea e oggi anche il Giappone, in virtù della crescente diversificazione della nostra produzione.

Per il 18esimo mese consecutivo, Istat rileva un calo rispetto ai livelli dell’anno precedente. Un calo sostanzioso: -3,3% anno su anno e -0,9% rispetto a giugno 2024 e che ci attesta a un livello inferiore a quello del 2021. (Fonte: Istat)

Insomma, questo per dire che non tutto va male se si va a fondo del dato aggregato. Per esempio le macchine per imballaggio e la farmaceutica volano, così la cantieristica. Nell’export di farmaci confezionati siamo terzi al mondo, sopra gli Usa, con un valore di 37 miliardi di dollari dietro a Francia e Svizzera, leader da sempre: l’industria del pharma campana esporta più in valore della nautica italiana che ha il 50% della produzione mondiale di superyacht.

D: L’industria farmaceutica è però un’industria per lo più internazionale: la possiamo davvero considerare made in Italy?

R: Il dato di export che citiamo comprende aziende internazionali che hanno siti produttivi in Italia. Il nostro Paese è il primo produttore europeo di farmaci anche per questi motivi. Nei 37 miliardi di euro di export citati c’erano già la Sanofi Aventis, la Merck Serono, la Bayer, e Pfizer e Novartis hanno aggiunto 10 miliardi in due o tre anni. Ma un terzo dell’export dipende da aziende italiane: Recordati, Chiesi, Menarini, Dompé. In tutto 13 compagnie fanno 14 miliardi di euro di fatturato. E il pharma non è l’unico settore vitale. Anche l’agroalimentare corre: Lactalis, che ha acquisito Parmalat, è un colosso che esporta in Francia le mozzarelle e l’Italia è il terzo paese al mondo per export di formaggi e secondo per bilancia commerciale. Tutti fenomeni che evidenziano un sistema produttivo dinamico. Se manterremo queste posizioni e le manterremo, non siamo spacciati, tutt’altro.

D: Insomma, l’industria italiana riprenderà a crescere una volta raggiunto il fondo della crisi tedesca?

R: Una volta raggiunto il fondo della crisi tedesca, che speriamo arrivi presto, ci può essere un rimbalzo con la ripresa del commercio intraeuropeo, e dunque delle normali attività e del ciclo industriale. Bisogna andare oltre il puro numero che in superficie mostra il calo della produzione industriale aggregata. I nuovi dati Istat rivisti, per esempio, mostrano che il valore aggiunto in termini reali della nostra manifattura a fine 2023 è sopra dell’1% rispetto al 2019. Ma anche se limassimo questo 1% e fossimo alla pari, avremmo mantenuto i livelli pre-crisi, mentre Francia e Germania sono molto indietro. Siamo in galleggiamento in un mare senza vento, ma non affondiamo.

Sotto il profilo della produzione industriale, la Germania è l’economia che rallenta di più in Europa. a crisi attuale della Germania dipende anche dal fatto che si sono bloccati due propulsori chiave: ovvero, il mercato auto cinese, che sembrava infinito, si è fermato, così come il gas a buon mercato di Putin. L’Italia risente di tutto questo contesto. (Fonte Eurostat)

D: Quindi l’industria italiana ripartirà anche se la nostra manifattura automotive sembra condannata a un declino irreversibile?

R: La crisi dell’auto in questo momento è mondiale. Oggi ad essere in discussione il modello produttivo dell’auto in Italia: non è solo una questione di auto elettrica e di choc tedesco. Davanti a noi non vedo una produzione automobilistica italiana che possa far faville: una volta che ci viene a mancare, è un pezzo di produzione industriale che non c‘è più. Ma mi preoccuperei di più se vedessi una perdita di competitività su scala globale: invece il problema dell’auto è un mercato che si affloscia a cui va aggiunta la questione ci Stellantis, che produce sempre meno in Italia. Va infine anche tenuto conto che rispetto a 3-4 anni fa abbiamo perso due mercati come Russia e Ucraina, che erano importanti e di fatto sono scomparsi. Insomma è una crisi non imputabile al made in Italy

D: E tuttavia impatta sulla nostra componentistica eccellente che da sempre è fornitore chiave della Germania…

Brembo
Sistema frenante di Brembo. Secondo Fortis, i produttori di freni probabilmente continueranno a operare e a crescere, ma quelli di radiatori, carburatori e parti della carrozzeria soffriranno e si stanno ponendo problemi sul futuro.

R: L’indotto è a rischio. Siamo tra i leader nella componentistica, tuttavia, se i produttori di freni probabilmente continueranno a operare e a crescere, quelli di radiatori, carburatori e parti della carrozzeria soffriranno e si stanno ponendo problemi sul futuro.

Questo dipende anche dalla decisione folle dell’UE di abbandonare il motore endotermico entro il 2035, accompagnata dalla condiscendenza tedesca, che pensava di diventare leader anche nell’elettrico e che invece ora si sta rendendo conto che è stato un errore. E chissà se è troppo tardi.

D: I tedeschi continuano a essere tiepidi nello spostare in avanti la scadenza nonostante questo vada contro la loro stessa industria

R: Sono tiepidi i tedeschi. E sono tiepidi i francesi perché sarà l’industria dell’energia elettrica francese a fornire l’energia che serve ad alimentare le nuove auto: la Francia fornirà elettricità dalle sue centrali atomiche che sono verdi, non dovranno fare la transizione. L’Italia, invece, dovrà eccome fare la transizione energetica e non sarà indolore, dovendo rinunciare in buona parte al gas per produrre tutto da rinnovabili.

D: L’Italia punta sulle rinnovabili, e si ostina a vietare il nucleare. Questo potrebbe spingere al fallimento le nostre industrie energivore, che è evidentemente un effetto che dobbiamo evitare

Gli Small Modular Reactor sono piccoli reattori nucleari. Sono più sicuri, di quelli tradizionali, e ormai con parecchi anni sulle spalle, usati dalla Francia.

R: Se avremo industrie energivore che falliranno sarà esattamente per il divieto del nucleare in Italia. Peraltro i nuovi modelli produttivi, primo fra tutti lo Small Modular Reactor, sono sicuri, più di quelli francesi, che comunque sono a 100 km da Torino. Non vogliamo il nucleare in casa ma lo abbiamo ai confini. Insomma il Green Deal avrà l’effetto disastroso di far spostare le fabbriche europee in aree a elevato inquinamento, ottenendo l’obiettivo opposto a quello per cui era stato progettato. Il problema è che non c’è la cultura per distinguere l’ambientalismo da sistemi socialmente responsabili in campo ambientale. Facciamo professione di fede per ridurre la CO2, poi la deindustrializzazione che ci sarà in Europa sposterà le produzioni occidentali in Paesi molto più inquinanti di fatto aumentando le emissioni nel complesso.

D: Quindi così com’è il Green Deal sta fallendo nei suoi obiettivi: di fatto ci possiamo aspettare lo spostamento delle produzioni in aree del mondo con regole ambientali meno stringenti. Quali sono le alternative concrete che vede per evitare la deindustrializzazione dell’Europa?

R: L’UE ha buttato la palla in là, pur avendo un modello già sostenibile. E che il nostro sia un modello sostenibile lo dicono i numeri. L’indice dello sviluppo umano dell’ONU, basato su reddito, istruzione e durata della vita, ponderato per il footprint carbonico, attesta che nei primi 10 paesi con lo sviluppo umano sostenibile più alto, otto sono dell’UE, e uno è la Svizzera. Nei primi 30, 20 sono dell’Ue, mentre gli USA sono 58esimi e la Cina 80esima. Abbiamo accelerato su una transizione green di cui non avevamo bisogno e il primo risultato è stato ritrovarsi con un’industria auto che non è in grado di competere con la Cina.

D: Di fatto l’industria auto ha già spostato il suo baricentro in Estremo Oriente. Possiamo recuperare il terreno perduto?

Vettura elettrica di Byd. La scelta di puntare sull’elettrico per le auto è stata miope: se anche si riuscisse a installare il numero di colonnine necessarie entro il 2035, rimarrebbe il problema di come alimentarle. Le rinnovabili non basterebbero.

R: Cina sta facendo batterie integrate nella carrozzeria: che potessimo batterla su questo terreno è stata un’illusione. Pensavamo di poter restare competitivi comprando batterie cinesi e montandole sulle nostre auto, in particolare le utilitarie: è stata un’illusione. E ancora non si capisce dove si prenderà l’energia elettrica necessaria ad alimentazione: anche qui ci stiamo cullando di illusioni. Riusciremo a costruire tutte le colonnine necessarie entro il 2035? E come le alimentiamo? Con le rinnovabili? Insomma, l’indotto automobilistico legato a questa follia europea ed è costretto a schiantarsi. Nel futuro forse ci saranno aggregazioni tra case auto e ristrutturazioni profonde: questa partita la giochiamo in difesa.

D: Sarebbe utile una proroga per l’adozione dell’auto elettrica? Perché una parte della sinistra europea sostiene che rallenterebbe solo la conversione delle case auto europee che resterebbero ancora più indietro

R: Credo che Urso faccia bene a chiedere una proroga. Tuttavia, la Cina nel frattempo non sta in attesa che l’Ue corregga i suoi errori: le batterie cinesi con sussidio saranno le più convenienti al mondo e già ora questa prospettiva rende la giga factory all’europea non economicamente sostenibile. Ma il problema è diverso ed è di strategia. Abbiamo motori diesel europei che inquinano, certamente. Ma non sono i principali responsabili dell’aumento delle emissioni. Ci sono voci molto più impattanti: come il riscaldamento e il condizionamento delle abitazioni e persino la cucina degli alimenti. Il diesel è stato sacrificato sull’altare della follia green. Oppure non sappiamo fare i calcoli sulla CO2 ed è stata usata una bandiera ecologica per ragioni politiche.

D: In tutto questo le tensioni geopolitiche come impatteranno sulla situazione di crisi generale?

R. È chiaro che elementi di disturbo geopolitico non favoriscono l’economia in nessun modo, ma fare previsioni su come andrà a finire l’escalation in Medio Oriente è difficile. Le problematiche si riversano anche sul canale di Suez, ma il passaggio delle merci non si è bloccato e non è questo il problema chiave: il problema chiave è la crisi del commercio estero. Una crisi fatta di ingredienti che non consentono di cucinare un buon piatto: protezionismi crescenti, chiusure di mercati che erano floridi, la Cina che non sta andando bene…

D: La Cina però sta attuando manovre di stimolo, immettendo liquidità nel sistema. Dove porterà questa politica? Quali effetti ne subirà la nostra industria?

R: La liquidità serve perché in Cina c’è una situazione di forte indebitamento e la crisi immobiliare è ancora latente, e il ceto medio non consuma più. La politica che attualmente sta conducendo la Cina non favorisce il modello di apertura totale al capitalismo del passato, anzi ci sono delle nuove chiusure. Pechino sta investendo tantissimo sulla tecnologia con un modello che è portato a favorire il sussidio all’industria locale. Insomma gli effetti non saranno benefici per la nostra industria: anche perché il Pil cinese cresce a ritmi inferiori rispetto al passato e in termini di export questo implica un calo.

L’export extra UE è in frenata. La Cina che per molti produttori occidentali sembrava uno sbocco infinito si è indebolita: per la crisi di un modello che ha raggiunto una specie di saturazione sul fronte del potere d’acquisto delle famiglie, appesantito dalla crisi immobiliare. (Fonte: Wto)

Non esiste più quel mercato di sbocco apparentemente infinito su cui puntavano gli esportatori occidentali. E in generale per l’industria manifatturiera non esiste più il contesto per svilupparsi. La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta dai primi anni novanta al Covid è finita. Forse ci sarà una nuova globalizzazione, ma di carattere diverso. Ma in questo contesto non possiamo aspettarci, almeno nel breve, grandi risultati: ma vale per noi, per Francia, Germania e Cina.

D: In Occidente la discesa dei tassi delle banche centrali potrebbe avere effetti positivi sull’industria manifatturiera? E in che misura?

R: La discesa dei tassi favorisce una ripresa degli investimenti, che però oggi sono fermi ovunque nel mondo. Anche di questo bisogna tener conto: le nostre imprese stanno cercando di capire quando riprendere a investire, ma lo stesso fanno le imprese francesi e tedesche. In Italia abbiamo esaurito il ciclo del vecchio piano Industria 4.0 e non abbiamo a pieno regime quello che dovrebbe fare da complemento: il 5.0. E abbiamo assistito alla anche alla fine del boom edilizio residenziale dovuto al Superbonus, che significa rallentamento delle produzioni dedicate al settore. L’edilizia, peraltro, è ferma dappertutto. Nulla favorisce l’espansione della produzione industriale. Ma abbiamo tante frecce al nostro arco per difendere le nostre posizioni.

D: Le posizioni di forza da cui possiamo ripartire sono dunque un export in cui scaliamo posizioni ed eccellenze produttive che non sono toccate dalla crisi globale geopolitica ed energetica. Ci basterà a tornare a crescere?

R:  L’Italia ha un modello che sopravviverà. Certamente avremo delle perdite. Le ceramiche, ad esempio, hanno fatto molto per diventare efficienti ed ecologiche, sono le meno inquinanti al mondo ma ora si trovano in una situazione in cui non possono usare il gas e tutto il distretto di Sassuolo è a rischio. I burocrati europei saranno responsabili di aver affossato, o comunque danneggiato, eccellenze produttive. Alcuni settori pagheranno. Tuttavia l’Italia, alla fine del processo, sarà messa meglio di altre economie industriali. Le nostre aziende sono meno energivore, di nicchia, piccole e operano in settori dove l’Italia continuerà ad eccellere, pur con qualche perdita. Riusciremo a fare l’acciaio? Piastrelle e ceramiche sopravviveranno? Non lo so, ma in media siamo più efficienti e sostenibili. In definitiva non sono preoccupato che la nostra impresa sarà spazzata via, ma che l’Europa possa avere una crisi socio-economica: Francia e Germania in crisi compreranno meno prodotti italiani. Perché la nostra industria prosperi l’Europa deve essere sana e robusta.

D: Manca però una politica industriale europea a supporto, che sia concreta, basata su forti investimenti in innovazione. Lo dimostra anche il modo tiepido con cui l’Europa ha reagito al rapporto Draghi che cerca di fornire una serie di linee strategiche per lo sviluppo.

Secondo Fortis, il monito lanciato, ovvero che ci stiamo avviando verso il ridimensionamento di un’Europa schiacciata tra Usa e Cina, non è stato colto dall’euro-tecnocrazia.

R: Quello che più preoccupa è che non sia stato percepito il messaggio chiave, ovvero che l’Europa rischia l’osso del collo. Il rapporto Draghi dà le linee per lo sviluppo europeo, si preoccupa di approvvigionamento delle materie prime e altre questioni di massima importanza. Si può discutere di come intervenire sui fattori di produzione e sui diversi settori: su quello il dibattito è aperto. Ma ciò che più importante, il monito lanciato, ovvero che ci stiamo avviando verso il ridimensionamento di un’Europa schiacciata tra Usa e Cina, non è stato colto dall’euro-tecnocrazia.

D: Quindi la ricetta Draghi, che invita a colmare il divario di competitività abbassando i costi energetici e riducendo le dipendenze, finanziando l’innovazione e di fatto allentando sulla transizione green com’è stata concepita finora, resterà lettera morta?

R: Esatto. L’Europa è sorda al monito. E invece dovrebbe farsi alcune domande cruciali. Per esempio: come facciamo a mantenere in vita le tante eccellenze industriali che abbiamo e che permettono di avere un surplus commerciale con il resto del mondo? Se fermassimo l’industria delle materie plastiche, l’acciaio e le ceramiche, l’Europa vedrebbe ridursi il proprio surplus commerciale da 37 miliardi a 7 miliardi. La perdita in bilancia commerciale dovrebbe preoccupare perché significherebbe indebitarsi con il mondo. Per conservare questa posizione dobbiamo mantenere delle industrie chiave. Non farlo significa ignorare deliberatamente le regole per mantenere in piedi le fondamenta dell’edificio sociale ed economico.














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