Il ritorno di Tafazzi: la proposta Cgil-5 Stelle-Schlein di abrogare il jobs act via referendum

di Filippo Astone ♦︎ La proposta finge di mirare alla stabilità dei posti di lavoro ma in realtà, se approvata, provocherà maggiore precarietà. Anche se non passasse, il solo fatto che un’idea del genere sia entrata nell’agenda nazionale ha effetti terribilmente negativi dal punto di vista dell’attrazione degli investimenti stranieri. Un danno enorme. I veri temi (produttività, sviluppo economico, istruzione, ricerca) non vengono minimamente affrontati. Si preferisce il populismo, vendendo bugie al parco-buoi elettorale, e danneggiando i più deboli

Sta entrando nell’agenda politica ed economica italiana la proposta della Cgil di Maurizio Landini di un referendum per abrogare alcuni passaggi del Jobs Act. I banchetti di raccolta delle firme in tutta Italia e l’adesione dei leader Cinque Stelle Giuseppe Conte e del segretario PD Elly Schlein hanno reso il tema sciaguratamente protagonista. Per Jobs Act si intendono il decreto legge 34 del 20/3/2014, noto anche come “decreto Poletti” e la legge 183 del 10/12/2014, oltre a una nutrita serie di decreti attuativi e decreti delegati. Dopo un anno dall’approvazione di queste riforme, il numero di occupati in Italia è aumentato di 560 mila unità, dopo tre anni di circa 1,1 milioni di unità. L’incremento dei posti di lavoro, secondo alcuni, non si può spiegare solo con il Jobs Act, c’entrano anche la congiuntura economica favorevole e i robusti incentivi statali alle assunzioni a tempo indeterminato, che prevedevano fino a tre anni di esenzione contributiva.

Come ci informa l’Ansa, sono quattro i quesiti che il sindacato propone «per modificare leggi sbagliare che hanno reso il lavoro precario, povero, mal pagato, insicuro».







Il primo intende abolire i meccanismi legislativi contenuti nel Jobs Act che, sul fronte dei licenziamenti dei dipendenti, ha concesso ai datori di lavoro grande libertà di manovra.

La Cgil punta a cancellare le norme che permettono licenziamenti ingiustificati e illegittimi, senza l’obbligo di reintegrare il lavoratore se assunto dopo il 2015. La seconda, affronta il tema del tetto massimo di indennizzo, di cui ha diritto un lavoratore licenziato in modo ingiustificato, se assunto in un’azienda con meno di 15 dipendenti. L’obiettivo è quello di superare questa norma stabilendo che sia un giudice a stimare il valore della compensazione economica. Nel terzo quesito referendario si affronta il tema dell’estrema precarietà dei contratti. La modifica proposta vuole abrogare l’articolo 19 del decreto legislativo 81/2015 che consente di stipulare contratti a temine anche senza alcun motivo. Un’azione necessaria per frenare il dilagare di contratti a tempo, senza sicurezze, limitando il loro utilizzo a causali specifiche e temporanee. L’ultimo quesito invece, affronta il tema della sicurezza, proponendo di modificare le leggi che governano il sistema degli appalti.

Dopo un anno dall’approvazione del Jobs Act, il numero di occupati in Italia è aumentato di 560 mila unità, dopo tre anni di circa 1,1 milioni di unità. (Fonte: Istat)

A parte il tema della sicurezza, sul quale la Cgil ha ragione da vendere, per Industria Italiana questa è una proposta che va contro l’interesse dei lavoratori e contro l’interesse del Paese nel suo complesso. Ed è carica di menzogne e di propaganda populistica da quattro soldi ai danni delle parti più deboli. Trattate come un parco buoi elettorale a cui vendere idee facili anche se completamente false. Mentre la nave sulla quale stiamo tutti viaggiando, progressivamente rallenta e si inabissa.

Questa proposta finge di volere la stabilità dei posti di lavoro ma in realtà, se approvata, provocherà maggiore precarietà

Maurizio Landini, Cgil. La Cgil punta a cancellare le norme che permettono licenziamenti ingiustificati e illegittimi, senza l’obbligo di reintegrare il lavoratore se assunto dopo il 2015.

Perché le aziende, soprattutto quelle piccole, piuttosto di assumere persone a tempo indeterminato con condizioni così penalizzanti – condizioni che infatti non esistono in alcun Paese d’Europa e del mondo Ocse – preferiranno far lavorare le persone con contratti a termine, varie forme di precariato e partite iva. O ricorrere a risorse dislocate in altri Paesi e collegate per via telematica.

E anche se non la proposta Cgil alla fine non venisse approvata, anche se il referendum per vari motivi non si dovesse tenere mai, il fatto che un’idea del genere sia entrata nell’agenda nazionale ha effetti catastrofici dal punto di vista dell’attrazione degli investimenti stranieri. Un danno enorme, proprio nel momento in cui il Governo sta cercando di far venire in Italia nuovi car maker a produrre, come i nuovi attori cinesi tipo Byd e la Tesla di Elon Musk.

Soprattutto, questa proposta vuole “vendere” all’elettorato meno colto e più semplice, un’idea non corrispondente alla realtà, una grande bugia: la fanfaronata per cui sarebbero le leggi sul lavoro a creare occupazione. I posti di lavoro (quale che ne sia la forma) invece, sono creati dallo sviluppo economico. Mentre la qualità del lavoro, e il livello della sua retribuzione, dipendono dalla produttività. Sviluppo economico e produttività dipendono dagli investimenti in tecnologie e mezzi di produzione, dal livello culturale e formativo delle risorse umane che si impiegano, dalla ricerca e sviluppo (qui l’Italia è fanalino di coda in Europa per gli investimenti) che si fa.

Secondo Giuseppe Conte mancano i posti di lavoro. Ma non è così. Ci sono, e sono tanti quelli creati dalle rivoluzioni tecnologiche del 4.0, della robotica, dell’automazione, dell’intelligenza artificiale. Mancano sono le persone adatte a ricoprire questi ruoli, perché il sistema formativo è largamente inefficiente.

Una politica che volesse veramente favorire l’occupazione di qualità, lavorerebbe su questi fattori. E i politici non del tutto digiuni di economia, lo sanno perfettamente. Solo che vere ed efficaci riforme su questi argomenti complessi, dispiegherebbero i loro effetti solo a medio-lungo termine. E quindi non produrrebbero un dividendo elettorale. Le bugie, le soluzioni false ma apparentemente immediate, invece, possono produrre un utile elettorale. E tanto basta a creare queste mobilitazioni di massa. Se poi provocano solo danno – e soprattutto, insistiamo, danno ai più deboli che si finge di voler tutelare – non importa assolutamente. È il trionfo della malafede.

La Cgil e i suoi partner in crime Elly Schlein e Giuseppe Conte non spiegano la prima cosa che andrebbe spiegata: perché mai il Jobs Act avrebbe fallito? Quanti sono tutti questi licenziamenti facili, queste centinaia di migliaia di persone messe sulla strada dal Jobs Act? Nessuno lo dice.

Il super-bonus per finanziare le ristrutturazioni con i soldi dello Stato è stata una catastrofe economica e ci sono centinaia di indicatori che lo motivano.

Nel 2023 i licenziamenti di natura economica sono stati 524 mila, con un calo di quasi il 7% rispetto al 2022, e confermando una tendenza alla riduzione del fenomeno. (Fonte: Istat)

Dove sono gli indicatori secondo i quali il Jobs Act avrebbe fallito? Di quali numeri parliamo?

Comunque, secondo l’Istat nel 2023 i licenziamenti di natura economica sono stati 524 mila, con un calo di quasi il 7% rispetto al 2022, e confermando una tendenza alla riduzione del fenomeno. Le dimissioni spontanee sono state invece due milioni. Dimissioni che non si spiegano con scelte di “qualità della vita” come un’altra retorica piagnona vuol far credere, ma semplicemente con i pensionamenti e con nuove opportunità lavorative. Perché si, mai come adesso, e nonostante tutto, il mondo del lavoro è in fermento.

L’aspetto pazzesco di questa iniziativa della Cgil e dei suoi tristi epigoni è la sua lontananza totale dalla realtà delle cose del mondo del lavoro e della produzione. Nel 2024 la disoccupazione è scesa dall’11-12% degli anni precedenti al 7% circa. Il problema delle aziende italiane oggi non è di licenziare, ma di assumere e di non riuscire a farlo perché mancano le persone adatte. Ci sono i posti di lavoro, i tanti posti di lavoro creati dalle rivoluzioni tecnologiche del 4.0, della robotica, dell’automazione, dell’intelligenza artificiale. E non ci sono le persone adatte per ricoprirli, perché il sistema formativo è largamente inefficiente. Questo è il problema. E quali proposte per risolverlo da parte di Maurizio Landini, Giuseppe Conte, Elly Schlein? Quali? Quali? Nessuna!

Secondo Pietro Ichino, «tornare al vecchio regime della jobs property nelle aziende medio-grandi sarebbe una sciocchezza. In primo luogo perché la riforma risponde all’esigenza di armonizzare il nostro diritto del lavoro con quello di tutti gli altri Paesi della UE». (Fonte: Wikipedia)

«Tornare al vecchio regime della job property nelle aziende medio-grandi sarebbe una sciocchezza. In primo luogo perché la riforma risponde all’esigenza di armonizzare il nostro diritto del lavoro con quello di tutti gli altri Paesi della UE», ha detto il professor Piero Ichino in una bella intervista ad Aldo Torchiaro uscita sul Riformista del 23 settembre 2023. «quella riforma», prosegue Ichino, «non ha portato affatto la “precarizzazione del lavoro” di cui parla il segretario della Cgil: la probabilità di essere licenziati è rimasta sostanzialmente invariata». Per Ichino se la job property fosse un diritto fondamentale della persona «non si spiegherebbe come nel vecchio regime abbia potuto restarne esclusa metà dei lavoratori dipendenti. E non si spiegherebbe perché quel preteso diritto fondamentale sia ignorato in tutti gli altri Paesi dell’Occidente sviluppato. Chi vuole abrogare questa riforma dovrebbe, piuttosto, spiegare come si giustifichi un regime come il nostro ora superato, che garantiva l’inamovibilità alla metà privilegiata dei dipendenti privati, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno sull’altra metà».

Da leggere anche un ottimo articolo di Innocenzo Cipolletta su Domani dello scorso 26 aprile. «Il mercato del lavoro in Italia sta cambiando notevolmente: da mercato dominato dalla domanda (scarsa) da parte delle imprese a fronte di un’offerta di lavoro (elevata) da parte delle persone, si sta passando a un mercato dominato dall’offerta di lavoro che risulta minore o non allineata alla domanda da parte delle imprese. Per anni la politica del lavoro si è concentrata su come favorire le assunzioni ed ancora oggi si pensa di abbattere i costi delle assunzioni fiscalizzando il cuneo contributivo, come se le imprese non assumessero essenzialmente a causa di costi elevati», ha scritto Cipolletta.

In realtà oggi ci troviamo di fronte a esigenze diverse: sono le imprese che fanno fatica a trovare lavoratori, al punto che molte di esse sono a favore di maggiore immigrazione e alcune si sono dedicate anche alla professionalizzazione degli immigrati per garantirsi la necessaria manodopera. «Questo cambiamento», prosegue Cipolletta, «è apparso evidente dopo il Covid, ma è in atto da diversi anni ed è favorito dal calo demografico che ha ridotto sensibilmente l’offerta di lavoro giovanile, assieme a una nuova attitudine delle persone, e in particolare dei giovani, nei confronti del lavoro. Il tutto in una società dove il patrimonio accumulato dalle generazioni passate rappresenta un fattore di protezione per le scarse generazioni future, che sono meno incentivate a cercare immediatamente uno sbocco lavorativo».

Elly Schlein, segretario PD. Schlein, Landini e Conte non spiegano un aspeto fondamentale: perché mai il Jobs Act avrebbe fallito? (Fonte: Wikipedia)

Cipolletta sottolinea come, nel complesso, il numero degli occupati in Italia abbia toccato livelli mai conosciuti prima e il tasso di occupazione sia aumentato, mentre quello della disoccupazione resti fermo attorno al 7% (era stato a due cifre nel passato). E conclude: «Siamo ancora distanti dai livelli di occupazione di altri paesi, specie con riferimento al lavoro femminile, ed anche a quello giovanile, ma è certo che le tendenze in atto ci stanno riavvicinando agli standard europei. In queste condizioni, appare poco indicata la proposta avanzata dalla Cgil di Landini per chiedere l’abolizione del Jobs Act e il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Una tale richiesta ci riporta indietro di decenni, in un’epoca ormai superata. Il livello della precarietà in Italia non è superiore a quanto avviene in altri paesi ed è legato alla tipologia di alcuni lavori in particolare nei servizi, come in tutti i Paesi».














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