La crisi della Germania (primo cliente dell’Italia) secondo Federico Visentin, Federmeccanica

di Marco De' Francesco ♦︎ La locomotiva tedesca frena dal 2023, con riflessi sull’industria UE e soprattutto italiana. Una crisi che ha origine del settore automotive, affossato dalle norme per la transizione green. Ma pesano anche la dipendenza dalla Cina e il caro energia. Il 2025 ancora più nero. La soluzione? Ripensare le politiche europee sull’automobile, e sul green in generale. Cosa che difficilmente avverrà ora che c'è una nuova commissione Von Der Leyen

«La crisi industriale tedesca? È dovuta principalmente a quella del settore automotive, innescata dalle regole troppo stringenti e poco realistiche della transizione all’elettrico. Il problema è che la débâcle della manifattura tedesca sta contagiando e trascinando in basso il manufacturing del Vecchio Continente. Occorre un segnale forte e immediato di revisione delle norme europee sull’auto green». Lo afferma Federico Visentin, che è presidente e ad di Mevis di Rosà (Vicenza: progetta e produce molle e componenti metallici stampati e saldati) ma soprattutto è presidente di Federmeccanica, l’associazione che rappresenta il settore più dipendente di tutti dalla Germania, la meccanica appunto. Ma anzitutto, cosa sta succedendo? La locomotiva tedesca frena dal 2023, che si è chiuso in Germania con un calo dell’1,5% quanto a produzione industriale. Nel 2024 non va meglio: nel mese di luglio, la produzione industriale in Germania ha subito una flessione del 2,4% rispetto al mese precedente e una diminuzione del 5,3% su base annua, secondo i dati diffusi dall’ufficio statistico federale tedesco, Destatis.

Inoltre, nel trimestre compreso tra maggio e luglio 2024, la produzione è risultata inferiore del 2,7% rispetto ai tre mesi precedenti. Le ripercussioni di questa situazione si fanno sentire sulle imprese europee ed italiane in particolare. Per esempio, sul fronte delle esportazioni, la Germania è il principale mercato per il settore manifatturiero italiano: oltre il 58% delle esportazioni verso la Germania è composto da prodotti intermedi, impiegati dalle aziende tedesche.







Secondo Visentin, come accennato, la crisi dell’industria tedesca non stupisce: il settore automobilistico rappresenta oltre il 20% del valore aggiunto manifatturiero del Paese. E a maggio, per esempio, la produzione di veicoli è calata di oltre il 5% rispetto al mese precedente. Volkswagen non esclude la chiusura di stabilimenti in Germania. Il patto siglato dai carmaker tedeschi nel 1994 con i sindacati per congelare i licenziamenti fino al 2029 è probabilmente destinato ad essere messo in discussione.

Per Visentin la transizione all’elettrico imposta dalla Commissione Von Der Leyen è un errore, poiché non sono state previste misure adeguate per le infrastrutture né stanziate le risorse necessarie. È pertanto urgente e necessario rivedere le politiche europee, adottando limiti temporali più realistici, puntando su neutralità tecnologica e investendo maggiormente sul lato dell’offerta, e cioè sulla capacità di innovazione delle imprese di settore.

D: Che cosa sta succedendo all’industria tedesca?

Federico Visentin, presidente e ad di Mevis di Rosà e presidente di Federmeccanica.

R: La crisi tedesca è principalmente legata a quella dell’automotive. Per dare un’idea dell’importanza del settore auto in Germania, questo rappresenta oltre il 20% del valore aggiunto manifatturiero del paese, mentre in Italia è solo il 6% e in Spagna il 9%. Questa centralità rende l’industria automobilistica tedesca un pilastro dell’economia europea, ma allo stesso tempo la espone maggiormente ai rischi legati ai cambiamenti del mercato e alle regolamentazioni. Il comparto sta affrontando difficoltà a causa di alcuni fattori.  Il principale è la transizione green.

D: In che modo la transizione green incide sull’automotive tedesco?

R: La crisi dell’industria automobilistica tedesca è in gran parte legata alla transizione forzata verso l’elettrico, imposta dalle normative europee che prevedono la cessazione della produzione di auto a combustione interna entro il 2035. Mentre alcune case automobilistiche, come Volkswagen, hanno già fatto ingenti investimenti nell’elettrificazione, altre sono rimaste indietro, creando una frattura all’interno del settore. Uno dei principali ostacoli alla transizione è la mancanza di infrastrutture adeguate per supportare la mobilità elettrica. Nonostante la Germania sia più avanti rispetto ad altri Paesi europei, anche lì si registrano difficoltà nel garantire la ricarica rapida dei veicoli green, soprattutto a causa della limitata disponibilità di energia elettrica. Questo problema infrastrutturale non solo rallenta l’adozione delle auto elettriche, ma ha anche un impatto negativo sulla percezione del mercato, che non si sente ancora pronto ad accogliere in massa questa tecnologia. Poi c’è la questione cinese.

I marchi di auto elettriche più venduti in Cina. Il settore automobilistico è uno dei più colpiti da questa concorrenza, poiché la Cina sta cercando di posizionarsi come leader nella produzione di veicoli elettrici. Inoltre, le relazioni commerciali con la Cina sono state influenzate anche dalle tensioni politiche internazionali, soprattutto a seguito dell’espansione del conflitto in Ucraina. (Fonte: carnewschina.com)

D: Che c’entra la Cina?

R: A complicare ulteriormente il quadro c’è la competizione con la Cina, che sta spingendo sempre più i propri prodotti sul mercato europeo, mettendo in difficoltà le industrie locali. Il settore automobilistico è uno dei più colpiti da questa concorrenza, poiché la Cina sta cercando di posizionarsi come leader nella produzione di veicoli elettrici. Inoltre, le relazioni commerciali con la Cina sono state influenzate anche dalle tensioni politiche internazionali, soprattutto a seguito dell’espansione del conflitto in Ucraina. La diffidenza verso la Cina e il rallentamento delle relazioni commerciali ha creato ulteriori ostacoli per l’industria tedesca, che in passato aveva fatto grande affidamento su questo mercato per l’esportazione. Nella crisi dell’automotive tedesca c’è poi una causa contingente, per così dire.

D: Quale causa contingente?

R: Quella della forte crescita del settore dei veicoli commerciali durante il Covid, legata all’espansione della logistica. Sono beni che si acquistano per il lungo periodo, per cui quel comparto è in drastico calo. Pesa ancora di più la questione energetica.

D: Si riferisce al costo dell’energia?

R: È un altro fattore cruciale che aggrava la situazione. A seguito del conflitto in Ucraina, e dello stop al gas russo, in Germania il prezzo dell’energia è cresciuto enormemente – e questo ha un effetto diretto sulla competitività delle industrie. Durante la fase più acuta della crisi energetica, il governo tedesco aveva introdotto misure per calmierare i costi, ma attualmente queste protezioni non sono più in vigore, lasciando l’industria esposta a un incremento dei costi operativi. Ciò sta creando disagio tra le aziende tedesche, che vedono minacciata la loro competitività non solo a livello europeo, ma anche globale.

D: Come stanno vivendo le aziende tedesche questo difficile periodo?

R: La Germania, un tempo vista come il faro della pianificazione industriale, sta vivendo una fase di incertezza politica e industriale. La difficoltà del governo a gestire la transizione energetica e la competizione internazionale sta creando malcontento, con aziende che lamentano l’assenza di un chiaro sostegno istituzionale. Molti osservatori ritengono che la situazione potrebbe peggiorare se non si interviene rapidamente con misure adeguate. Insomma, gli industriali tedeschi contestano fortemente l’operato dell’esecutivo, e questo è una novità in Germania.

D: Anche la Francia arranca, quanto a produzione industriale. Un calo a luglio dello 0,5% rispetto al precedente mese di giugno, penalizzata dal calo dello 0,9% della produzione manifatturiera. È una questione europea? È un effetto domino?

R: Beh, il problema dell’industria automobilistica è trasversale e oggi si fa sentire in vari Paesi. Forse in Germania fa più rumore perché non si era mai sentito dire di chiudere stabilimenti tedeschi prima d’ora, quindi c’è anche un effetto novità. Invece, Volkswagen valuta di serrare impianti in patria; ed è certo che chiuderà lo stabilimento Audi di Bruxelles, lì dove l’azienda produceva il Suv elettrico Q8 e-tron – che è uscito di produzione a luglio in seguito al fallimento commerciale. Per Volkswagen si tratta di tagliare 10 miliardi di euro di costi entro il 2026; e il patto siglato nel 1994 con i sindacati per congelare i licenziamenti fino al 2029 è forse destinato ad essere messo in discussione. Ma anche Stellantis chiude stabilimenti in Europa: ad esempio a Bielsko Biala, in Polonia. D’altra parte, da noi l’auto non riparte a Melfi e a Mirafiori: la produzione di Stellantis in Italia è calata del 25,2% nel primo semestre 2024; e in rosso sono tutti gli stabilimenti. Che fine faranno? Diciamo che Tavares serra gli impianti in chiave nazionalista francese. Secondo me, peraltro, Renault e Stellantis si troveranno in una maggiore difficoltà rispetto ai tedeschi; perché questi ultimi puntano per lo più sul premium, dove al centro ci sono tecnologie innovative e dove il nome del carmaker non è immediatamente sostituibile; il fattore prezzo è invece principale per le Case francesi, che faticheranno sempre più a tenere il ritmo dei cinesi.

D: Tavares punta a ridurre i costi operativi

R: Ma è molto discutibile come lo fa. Ad esempio, quando con Psa ha acquisito la Opel ha ridimensionato il centro sviluppo di Rüsselsheim, vicino a Francoforte. In effetti lo sviluppo è un fattore di costo molto rilevante. Ma che automotive si vuole fare senza sviluppo? Una scelta condivisibile sarebbe quella di contare sul supporto nello sviluppo generato dai fornitori. E invece Tavares si limita a dire: andate in Nord Africa, lì troverete fornitori a basso prezzo. Fornitori che non fanno certo sviluppo come gli italiani. È una visione limitata e poco lungimirante.

D: Invece le aziende tedesche richiedono la progettazione dei componenti alle imprese italiane, e ciò spesso a titolo gratuito.

R: Sì, è un fenomeno che non sta cambiando. Le aziende italiane sono molto brave nella ricerca, nella progettazione e nell’innovazione relative a componenti nuove e specifiche e nel miglioramento costante dei processi. Per questo motivo, in Italia si verifica un’innovazione incrementale; per quella disruptive, invece, occorre la ricerca di base, che da noi è poco praticata. Questo tipo di attività è principalmente svolta dai grandi player, che collaborano con università e istituti di ricerca, soprattutto in Germania. Ma da noi sono pochissimi i grandi gruppi industriali capaci di investire significativamente in ricerca e sviluppo: ad esempio, Leonardo e Fincantieri. Quando gli altri nostri piccoli gruppi riescono a destinare parte del loro fatturato alla ricerca, l’impatto è comunque limitato. Continuiamo a chiedere supporto al governo, non solo sul fronte dell’innovazione, ma anche sul tema della crescita dimensionale delle nostre imprese. Purtroppo con scarsi risultati.

Le aziende italiane sono molto brave nella ricerca, nella progettazione e nell’innovazione relative a componenti nuove e specifiche e nel miglioramento costante dei processi. Per questo motivo, in Italia si verifica un’innovazione incrementale; per quella disruptive, invece, occorre la ricerca di base, che da noi è poco praticata. (Fonte: AlixPartners)

D: Quali effetti ha la crisi tedesca sulla manifattura italiana?

R: Quelli che si vedono. Nella media del secondo trimestre 2024 si registra un calo del livello della produzione dello 0,8% rispetto ai tre mesi precedenti. Il 16 settembre presenteremo i dati aggiornati al 30 giugno relativi alla situazione economica delle nostre aziende metalmeccaniche. Il centro studi sta ancora completando l’elaborazione dei dati, e il segnale è chiaro: già nell’ultima analisi avevamo riscontrato una riduzione che continua a persistere. D’altra parte, potrebbe andare diversamente? Sul versante dell’export, la Germania rappresenta la principale destinazione di quello manifatturiero italiano; ma più di metà (58%) delle vendite in Germania è costituito da prodotti intermedi, utilizzati dalle imprese tedesche. Insomma, la crisi tedesca mette nei guai i componentisti, e non solo quelli dell’automotive.

D: Prospettive per l’industria metalmeccanica nel 2025?

R: Quanto alle aspettative per il 2025 riguardo alla ripresa dell’industria metalmeccanica, in particolare quella legata al settore automobilistico, fino a qualche mese fa c’era una diffusa opinione che la crisi potesse risolversi con il nuovo anno, lasciando sperare in una ripresa per il settore. Tuttavia, al rientro dalle ferie, è emerso un crescente pessimismo: molte persone nel settore non vedono più segnali positivi nemmeno per il 2025. Questa incertezza e mancanza di prospettive sta alimentando preoccupazione, poiché i progetti, anche quelli nuovi, non riescono a prendere slancio.

D: Secondo lei di chi è la principale responsabilità di ciò che sta accadendo, in Germania e in Europa? 

Secondo Visentine, le responsabilità della crisi industriale sono da attribuire alla Commissione UE guidata da Ursula von der Leyen. Il Green Deal europeo, che impone una transizione ecologica, è il risultato di buone intenzioni che però non si traducono in un piano concreto e attuabile.

R: Sicuramente della Commissione europea. Non c’è ombra di dubbio che la Commissione Von Der Leyen, quella passata, ha spinto per la transizione all’elettrico senza predisporre una politica precisa in ambiti cruciali come le infrastrutture, le materie prime e l’energia. Il Green Deal europeo, che impone una transizione ecologica, è il risultato di buone intenzioni che però non si traducono in un piano concreto e attuabile. Non ci sono abbastanza misure di sostegno, incentivi mirati e strategie di lungo termine che permettano di accompagnare le aziende attraverso questo cambiamento senza causare loro danni irreparabili. Anche gli incentivi, andavano studiati per rafforzare l’offerta – e cioè le aziende e la loro capacità di stare sul mercato innovando.

D: Ora c’è una nuova commissione Von Der Leyen

R: Dalle prime avvisaglie, la formazione di una nuova commissione è stata una delusione formidabile, perché la Von Der Leyen in “campagna elettorale” aveva affermato di voler dare importanza ai problemi dell’industria; invece poi ha di nuovo riproposto lo stesso assetto ideologico che aveva caratterizzato l’esecutivo precedente. C’è stato un colpo di coda velenoso, forse per raccattare qualche residuo voto verde. Ma la situazione è talmente grave che in Germania si parla di un nuovo 2009. Questa è l’aria che si respira.

D: Lei crede che la nuova commissione alla fine abbraccerà una strada più realistica?

R: Non ho grandi speranze in tal senso.

D: Cosa bisognerebbe fare?    

R: Bisogna appunto ripensare le politiche europee sull’automobile, e sul green in generale. Occorre imporre limiti temporali meno stringenti, più neutralità tecnologica, e un maggiore impegno sull’ibrido. Serve un maggiore investimento sulle competenze e sulle infrastrutture. E bisogna fare tutto questo molto rapidamente, perché attualmente le case non investono in nuovi modelli, e nell’automotive i cicli di sviluppo sono particolarmente lunghi. Il messaggio deve essere lanciato adesso, perché poi sarà troppo tardi.  Sul punto, Federmeccanica è decisa a farsi ascoltare.














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