La pandemia da Coronavirus ci ha resi fragili non soltanto perché ha scardinato le certezze, ma anche e soprattutto perché ha mostrato le contraddizioni dell’economia mondiale. E per farci capire che qualcosa non stesse andando, non è servito tanto il blocco di qualsiasi attività produttiva come avvenuto durante il primo lockdown, ma piuttosto il ritorno alla normalità, scandito da eventi che normalmente sarebbero stati degni di qualche trafiletto e che hanno invece occupato le prime pagine dei giornali per giorni. La nave che ha bloccato il Canale di Suez; l’attacco hacker che ha paralizzato l’oleodotto americano; il maltempo che ha flagellato il mondo occidentale. Tutti eventi tutto sommato “normali” che hanno però mostrato ulteriormente la debolezza strutturale di un’economia che ha – per assurdo – sopravvalutato gli effetti della pandemia e ha invece sottostimato le conseguenze sul lungo periodo. Spieghiamoci meglio.
Durante i primi mesi del Coronavirus, le aziende hanno di fatto azzerato gli ordini e si sono poste in modalità “sopravvivenza”, aspettando che passasse la buriana. Questo ha avuto due effetti immediati: il primo, statistico, che ha fatto registrare il primo tasso negativo del prezzo del petrolio sul Brent. Il secondo, concreto, che ha mostrato come terminata la fase acuta, ci sia stata una grande corsa non soltanto per ricomprare materie prime utili per la produzione, ma c’è stata anche una richiesta aggiuntiva, per ricostituire le scorte. E si è creato il cortocircuito che ha portato all’impennata dei prezzi, per la totale carenza di materie prime disponibili. Attenzione perché non si tratta di un semplice aumento dei costi, ma di un potenziale tsunami che – se non mitigato da azioni governative – potrebbe portare a un’altra crisi sistemica che metterebbe forse definitivamente in ginocchio le economie.
Lo scorso 17 maggio Ferruccio De Bortoli, sulle pagine del Corriere Economia, ha ricordato come ci siamo fatti distrarre dal potere del digitale che sembrava poter risolvere qualsiasi problema. Invece, ha scritto l’ex direttore del Sole 24 Ore, “l’economia è ancora pesantemente fisica. Tutto questo enorme trambusto sui mercati, che ha già causato a valle consistenti aumenti di prezzo in alcune filiere, quando e come si trasferirà sui consumi finali? Una piccola fiammata inflazionistica è già in atto come conferma l’ultimo dato sull’andamento dei prezzi al consumo negli Stati Uniti (+4,2% su base annua)”.
Che cosa dobbiamo aspettarci, dunque? Industria Italiana l’ha chiesto a Flavio Bregant, direttore generale di Federacciai e al presidente di Assofond Roberto Ariotti. Abbiamo rivolto la nostra attenzione al grande mondo della siderurgia perché rappresenta quello più importante dal punto di vista strategico in Italia. Attualmente il Belpaese è il tredicesimo player globale, e il secondo europeo, dopo la Germania. La siderurgia dà lavoro a 33.400 persone, inserite in una filiera molto articolata: produzione di acciaio e prima trasformazione, centri servizio, distribuzione, commercio di rottame e ferroleghe, taglio e lavorazione della lamiera, utilizzatori. E ha ricavi per quasi 60 miliardi di euro. Conta, nei diversi segmenti, gruppi con fatturati miliardari, come Duferco, Arvedi di Cremona, Danieli di Buttrio, Feralpi di Lonato del Garda, le Acciaierie Venete di Padova, Ori-Martin di Brescia, FinMar (Marcegaglia) di Mantova, e altri. E da noi sono presenti anche importanti produttori stranieri, come la già menzionata ArcelorMittal, come l’indiana JSW che ha acquisito lo stabilimento Lucchini di Piombino, o come ThyssenKrupp in Acciai Speciali Terni, che rappresenta il 15% del fatturato industriale umbro. E ci siamo rivolti ad Assofond perché ci ha fornito alcuni dati particolarmente allarmanti per quanto concerne l’incremento dei prezzi. È il caso della ghisa, che è passata da una media di 319 euro per tonnellata a settembre 2020 ai 521 di maggio di quest’anno.
1. FEDERACCIAI
Una situazione dovuta solo in parte al Covid
Tutte le materie prime – e non solo quelle della siderurgia – sono sotto pressione ormai da tempo. Il prodotto d’acciaio ha la peculiarità di essere fondamentale per tutta la manifattura, ma è anch’esso soggetto a crisi della reperibilità di materie prime in ingresso, ovvero il minerale di ferro e il rottame. A monte di questa tensione, comunque, c’è da segnalare una geodinamica piuttosto complesso, che ha visto il significativo incremento del costo del rottame tra il 2020 e il 2021. Il motivo essenziale dell’incremento dei prezzi, dunque, va sicuramente ricercato nel gap fra domanda e offerta. Si tratta di una situazione che ha iniziato a verificarsi nella primavera 2020, quando i lockdown che la pandemia ha imposto più o meno in tutto il mondo hanno ridotto drasticamente la produzione di materie prime.
«Tutti i paesi – ci spiega Bregant – hanno avuto delle riduzioni di pil, con conseguente calo della produzione di acciaio. Basti pensare che in Italia, tra marzo e aprile del 2020 la produzione era scesa del 40% prima di riuscire a recuperare in modo straordinario e chiudendo sotto di “solo” il 12%. Ma va notato che la produzione a livello mondiale di acciaio è rimasta sostanzialmente costante. La Cina, che rappresenta il 56% della siderurgia mondiale ha incrementato la sua produzione del 7% nonostante sia stato il primo paese a venire colpito. Le industrie manifatturiere che si sono fermate hanno quindi consumato le scorte. A fine anno, con l’inizio della ripresa, la Cina ha continuato a crescere in maniera costante dal punto di vista siderurgico e nel primo trimestre ha fatto +15%. Era un paese esportatore, ma l’incremento dello stimolo interno ha portato a un aumento del 144% dell’import».
Questa dinamica ha sostanzialmente tolto dal mercato una quota significativa dell’acciaio presente. Nel primo trimestre del 2021, d’altro canto, gli Stati Uniti hanno diminuito la produzione siderurgica del 5%, il che significa che anche loro hanno iniziato a importare moltissimo materiale. La Turchia, negli ultimi mesi del 2020, è riuscita a entrare negli Stati Uniti nonostante vi sia una barriera di protezione che prevede il 25% di dazio per tonnellata.
«La seconda ragione dell’incremento dei prezzi – continua Bregant – è tecnica. La produzione di acciaio, infatti, avviene o dal minerale di ferro o dal rottame. La Cina è molto sbilanciata: il 90% della sua produzione arriva nel primo modo, e questo fa aumentare a dismisura il costo di approvvigionamento. Anche l’Europa ha uno sbilanciamento del 70% verso il ciclo integrale. L’Italia, invece, ha l’80% della sua produzione che viene realizzata tramite forno elettrico con rottame. E questo si è riverberato sulla ripresa: nel primo trimestre siamo cresciuti del 19%, contro l’1,7% della Germania. E ad aprile siamo saliti ulteriormente».
Quello che appare evidente, dunque, è che le tensioni sul rottame continueranno anche perché c’è un terzo tema. L’Europa, con il Green New Deal, ha dichiarato di voler procedere con una robusta decarbonizzazione della produzione, puntando su altre forme di energia come l’idrogeno. Ma per portare avanti questa transizione, il modo più immediato per farlo è passare dal ciclo integrale a quello elettrico, facendo aumentare la richiesta di rottame. C’è però un problema: che la Cina ha già messo un dazio del 40% all’esportazione di questa tipologia di materiale siderurgico e lo stesso hanno fatto Russia e Ucraina. L’Europa, invece, esporta il rottame e ogni anno cede 17 milioni di tonnellate. La situazione tornerà a stabilizzarsi solo nel 2022. Secondo gli economisti di Intesa Sanpaolo, infatti, almeno tutto il 2021 sarà soggetto a pesanti tensioni sui prezzi.
L’impatto dell’aumento dei prezzi sulla ripresa della siderurgia
L’industria dell’acciaio italiana sta oggettivamente lavorando bene in questo momento. I livelli produttivi sono tornati ai livelli di aprile 2018 e quindi non si può nascondere una certa soddisfazione. «Permangono però due vincoli – ci spiega Bregant – il primo riguarda la nostra capacità produttiva, che è quella e che non può contare sull’avvio di nuovi forni. Quello che abbiamo a disposizione lo stiamo già usando al massimo delle possibilità. Il secondo tema riguarda Taranto, che produce una quantità molto limitata rispetto a quanto potrebbe fare. Riuscire a risolvere il problema di quell’acciaieria sarebbe un enorme sollievo per tutta la nostra industria». Un altro grande problema riguarda il fatto che la filiera si compone di una lunga serie di attori che spesso lavorano con contratti fissi e che quindi non possono trasferire a valle l’incremento dei prezzi, di fatto erodendo i margini.
La geopolitica dell’acciaio
Quello che però deve essere salutato con grande entusiasmo è l’avvio di un dialogo – si spera fruttuoso – tra Europa e Stati Uniti per ammorbidire il meccanismo di sanzioni che ancora sono in vigore. Ma il Vecchio Continente, nel frattempo, può intervenire sul mercato? «L’Europa non ragiona per dazi – chiosa Bregant – e noi non siamo favorevoli a questo tipo di atteggiamento. La nostra filosofia culturale storicamente vuole un mercato, come si suol dire, “fair and free”, e quindi occorre ragionare in modo diverso. Però alcune restrizioni potrebbero e dovrebbero essere sicuramente inserite. Ad esempio: il rottame generato in Europa proviene da acciaio prevalentemente del nostro continente, realizzato quindi in ossequio a prescrizioni ambientali precise e stringenti. Se lo mandiamo in paesi che non hanno le nostre stesse prerogative e che poi ci fanno concorrenza con dumping ambientale, allora questo diventa un autentico controsenso. Su questo tema urge una profonda riflessione: davvero vogliamo vendere i nostri rottami a paesi che lavorano con una diversa sensibilità ambientale rispetto a noi?».
Infine, rimane da analizzare l’annoso tema dei dazi doganali introdotti durante la “guerra commerciale” tra Usa ed Europa e tra Usa e Cina. Un meccanismo protezionistico che ha soltanto creato ulteriori tensioni. E questo ancora prima che si venisse a sapere dell’esistenza del Coronavirus. Con la salita alla Casa Bianca di Joe Biden in molti hanno sperato che questo circolo vizioso potesse essere spezzato ma, al momento, questo non è ancora successo. Anche se va registrato qualche importante passo avanti.
«L’Europa e gli Stati Uniti – ci spiega Bregant – si sono messi a dialogare. Una prima buona notizia è arrivata dal fatto che il nostro continente aveva la possibilità di incrementare i dazi tra il 25 e il 50% ma ha deciso di non farlo. E ha dunque aperto a una nuova stagione di maggiore disponibilità verso gli Stati Uniti. Al momento però Biden non ha espresso la benché minima intenzione di togliere l’imposta del 25% per ogni kg di acciaio che entra negli Usa. Permane quindi questa distorsione e l’Europa deve comunque difendersi. Ma il fatto che sia stata avviata una qualche forma di discussione mi fa pensare che ci si sta avviando verso una stagione di progressivo disgelo».
2. ASSOFOND
L’impatto sull’attività degli associati
Al momento le difficoltà legate a costi e reperibilità delle materie prime è la principale incognita che grava sui prossimi mesi. La ripresa c’è e le aziende stanno lavorando bene. Due terzi e più delle fonderie italiane stanno marciando a ritmi superiori a quelli pre-Covid, e la stima è di poter recuperare il fatturato perduto nel 2020 già a fine 2021. «Ma un conto è il fatturato, un conto sono i margini – chiosa Ariotti -. I numeri, del resto, dicono tutto: la quotazione della ghisa da affinazione è passata da una media di 319 euro la tonnellata, rilevata a settembre 2020, ai 521 euro di maggio 2021 (+63%). Per quanto riguarda il rottame, il lamierino in pacchi è passato dai 303 euro/tonnellata di inizio settembre, agli oltre 438 euro di maggio (+45%). Anche il prezzo cash medio mensile dell’alluminio primario quotato al LME, dai minimi della primavera 2020 in un anno è aumentato del 60% (da circa 1.450 dollari/tonnellata a oltre 2.300 dollari/tonnellata). L’alluminio secondario ha avuto una dinamica ancora più esplosiva, sfiorando il 90% di incremento in un anno».
Naturale pensare che rincari così pesanti stanno creando enormi problemi al settore. E le aziende pensano, come prima difesa, a correggere i prezzi di vendita. Ma è un circolo vizioso che non può funzionare. Le fonderie sono spesso pmi, che occupano una posizione strategica nella catena del valore ma che hanno clienti di dimensioni enormi come i grandi gruppi dell’automotive, dell’energia, delle macchine utensili. È difficile ribaltare completamente sul prezzo dei getti gli incrementi dei fattori produttivi. Inoltre, oggi abbiamo un altro problema: il materiale scarseggia e i tempi di consegna sono lunghi. Per la ghisa in pani, ad esempio, proseguono le difficoltà del Brasile nel garantire le forniture, legate quasi certamente agli sviluppi della pandemia. A oggi, si ipotizza che i nuovi arrivi dal Sudamerica si potranno avere non prima dell’autunno.
Quali rischi per la ripresa?
È naturale pensare che vi siano delle ricadute sulla ripresa che risulta in qualche modo “azzoppata” a causa dell’incremento delle materie prime. I costi sempre maggiori, del resto, erodono i margini e complicano i piani di crescita e di investimento delle aziende, che magari devono rimandare qualche progetto di sviluppo per coprire i crescenti costi di produzione. «Ma il rischio più grande per la crescita dell’inflazione – aggiunge Ariotti – viene proprio dalla scarsità di materie prime. Abbiamo visto, ad esempio, i problemi che sta affrontando l’industria dell’auto con la carenza di chip. La scarsità di materie prime può arrivare a ridurre la produzione di beni: se si producono meno auto, i prezzi saranno più alti».
Quali interventi mettere in campo:
La situazione economica globale in questo periodo è estremamente fluida. Oltre alla forte ripresa della domanda di Cina e Stati Uniti, elementi che concorrono alla crescita delle materie prime sono i grandi piani economici post-pandemia, la transizione energetica e i problemi legati alla logistica, con il caro dei noli e situazioni imprevedibili, come ad esempio il recente blocco del canale di Suez. A tutto questo si aggiungono le nuove misure economiche cinesi volte a favorire l’import e disincentivare le esportazioni, per dare fiato alla domanda interna. «Dal primo maggio – chiosa Ariotti – è stato azzerato il dazio sull’import di lingotti e billette provenienti da Paesi fuori dall’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico ed è ora duty free anche l’importazione di ghisa, ferrocromo, rottame siderurgico. Inoltre, è stato eliminato lo sgravio fiscale di cui beneficiavano le esportazioni di una vasta gamma di prodotti siderurgici. Tutto questo per favorire la domanda interna. Noi ci troviamo in una posizione difficile. Si potrebbe forse pensare a misure per limitare l’export di rottame europeo, ma con le quotazioni attuali il materiale va dove ci sono acquirenti disposti a pagarlo, e la ripresa di Cina e Usa, in questo momento, mette gli operatori di quei Paesi in una posizione di forza».
Le richieste alle istituzioni
Un punto su cui Assofond chiede maggiore impegno da parte delle istituzioni è quello del mercato del lavoro: quasi tutte le imprese stanno cercando personale, poiché si tratta di un settore in cui il turnover è bassissimo, che offre lavoro stabile e opportunità di crescita professionale. Va incentivata la formazione professionalizzante e, più in generale, andrebbe riformata l’intera struttura del mercato del lavoro, eliminando la vergognosa dicotomia fra lavoratori iperprotetti e altri senza alcuna sicurezza. Serve incrementare l’efficienza delle politiche attive, favorendo la formazione e la riqualificazione di coloro che devono cambiare lavoro o che sono alla ricerca di una prima occupazione, e incentivando l’assunzione di giovani e di donne da parte delle imprese.
«Il governo ha messo a punto un piano di ripresa strutturato che mi auguro possa in tempi relativamente brevi far vedere i suoi effetti – aggiunge Ariotti -. Ora servono stimoli agli investimenti, in un momento in cui, come dicevo prima, i costi delle materie prime e la crisi della liquidità potrebbero portare molte imprese a rimandarli». L’ipotesi della cessione del credito d’imposta per gli incentivi di Transizione 4.0 poteva essere uno strumento importante: spero che ci possano essere margini per tornare sulla decisione di non prevederlo. Un altro tema chiave è la transizione verso l’economia circolare, che è cruciale proprio in un momento in cui le materie prime scarseggiano, e ancor di più in un Paese povero di risorse come il nostro. Le fonderie sono da sempre un modello avanzato di economia circolare: non solo riutilizzano rottame proveniente dalla demolizione di prodotti metallici giunti a fine vita, ma riciclano internamente anche quasi tutti gli scarti di produzione.
«Molto spesso, però, non riusciamo ad arrivare al 100% – conclude Ariotti – a causa di lacune in materia di end of waste ancora presenti nella legislazione italiana. Pensiamo alle terre esauste. Anche se riusciamo a riutilizzarne la maggior parte in sostituzione di sabbie e terre provenienti da attività estrattive, una quota parte non può essere reimpiegata nel processo, o perché in eccesso o perché, dopo un certo numero di cicli, non possiede più le caratteristiche fisiche necessarie a essere riutilizzata. L’assenza di una legislazione chiara in merito impone che questi residui di fonderia siano classificati come rifiuti e non come sottoprodotti, pertanto il loro riutilizzo, seppure tecnicamente realizzabile, è appesantito sia da vincoli burocratici, legati alla concessione delle autorizzazioni e alla gestione dei rifiuti (fideiussioni, controlli, registrazioni, ecc.) sia “culturali”, dovuti alla diffidenza legata alla gestione di un rifiuto e non di una merce e alla paura di possibili ripercussioni giudiziarie dovute a una non omogenea esecuzione dei controlli ed applicazione della legge. Il danno, in questo caso, è duplice: per le fonderie italiane, che devono affrontare ingenti costi per lo smaltimento perdendo competitività sul mercato globale, e per altri settori che potrebbero facilmente riutilizzare le nostre terre come materia prima secondaria a costi contenuti, in particolare nell’ambito della ceramica, dei laterizi e del vetro, in accordo con il modello della simbiosi industriale».
(Ripubblicazione dell’articolo uscito il 25/05/21)